Sic transit José mundi

Roberto Beccantini12 marzo 2015

Secondo il gentile Fulvio, il Greto Garbo della Clinica per il fascino misterioso del lessico, «a livello tecnico, questi tornei [Champions League] equivalgono al torneo dei bar estivi». Ero a Roma nel 1996 e non mi sembra di ricordare che capitan Vialli avesse alzato una mortadella, ma posso sbagliarmi. Nel rispetto della sua opinione, credo che la Champions sia qualcosa di più, in assoluto, di un certame balneare.

Per questo scrivo della lezione che il Paris Saint-Germain ha inflitto al Chelsea di José Mourinho a Stamford Bridge, eliminandolo dal torneo dei bar di cui sopra. Con Ibrahimovic espulso troppo presto e troppo in fretta (il Mazzoleni di Chievo-Roma lo avrebbe forse ammonito, ripeto: forse), con Cavani cecchino «impalato» e Thiago Silva prima traditore (il rigore) e poi giustiziere (lo smash del 2-2).

La scorsa stagione, sempre negli ottavi, Mourinho pescò dal mazzo Schurrle e Demba Ba: entrati a gioco in corso, firmarono il 2-0 che ribaltava l’1-3 del Parco dei Principi. Salii sul carro di Josè incantato e venerante, specialista in Special One. Un anno dopo, abbandono il carro come un mediocre Schettino al grido di «Già fuori con i soldi di Abramovich, shame, shame!».

Swinging Paris. Diabolico, Mourinho è arrivato a dire che l’uomo in più aveva favorito i Blanc, non i bleus. Salvo poi aggiungere, da cherubino col passamontagna, «Sono stati più forti di noi». A Roma direbbero: e te credo.

Josè è allenatore estremo ed estremista, nei trionfi (Porto, triplete con l’Inter), nelle mosse (il catenaccione del Calderon, Pepe mediano contro il Barça, la mossa Zouma contro il Paris in dieci), nei tonfi. Dividerà sempre. Laurent Blanc ha studiato gli errori di un anno fa e li ha corretti. Mourinho, viceversa, si è seduto sul suo ego. Che per una volta, ma non la prima, l’ha schiacciato.

La (mia) carne è debole

Roberto Beccantini9 marzo 2015

Non è facile sposare una prestazione orrenda con un risultato che pesa tonnellate (più undici, non so se mi spiego). La prestazione orrenda non ha scorte; il risultato ha guardie del corpo col mitra. I parenti si fiutano in cagnesco, il prete tentenna.

Spero che sia tutta colpa del mio pessimismo cosmico, ma le ultime Juventus – escluse rare fette di torta – mi sembrano sgonfie. E la stagione si decide proprio adesso, attorno alle idi di marzo. I risultatisti mi opporranno che il Sassuolo non ha mai impegnato Storari. I prestazionisti ribatteranno che c’è un limite a tutto, e per tutti: da Vidal a Pereyra, da Tevez a Marchisio a Pogba. Quanti errori di passaggio, quanti segni di passeggio.

I risultatisti applaudiranno l’ingresso di Pepe e il ritorno di Barzagli. I prestazionisti sorrideranno della «pazienza» millantata da Allegri e della pila di lucchetti (Barzagli-Bonucci-Chiellini) sbandierati, nel finale, per reggere l’urto di Berardi e di quel rompiballe di Zaza, avesse detto.

La Lazio ha surclassato la Fiorentina che, con Salah, aveva steso la Juventus di coppa. Vero, brontolano i risultatisti, ma proprio a quella Lazio, anche se non ancora «di» Felipe Anderson, la Juventus inflisse una sonora lezione. Per poi concludere: l’autunno della Roma, un mese di grande Lazio, due di Fiorentina al sangue, le montagne russe del Napoli, ma chi è in testa da tre e anni e mezzo a questo parte? Chi? (con tanto di di mano sull’orecchio).

E bravi, replicano i prestazionisti. Se è bastato il ronzio dei Berardi e degli Zaza a creare problemi e la gamba del Sassuolo a smascherare il logorio del gruppo, figuriamoci cosa produrranno il ruggito di Dortmund e le zanne di Reus, Aubameyang, Immobile. Lo immagino.

Come no. Ma sono di carne anch’io. E così al numero di Pogba, visto che il servizio di Pepe non era per lui e che Paul, fin lì, non l’aveva mai presa, ho perdonato Conte e i suoi venti punti di fiele.

Meglio la Viola del violino

Roberto Beccantini6 marzo 2015

Non erano previste analisi, lo impone il risultato. Essere juventini significa prima di tutto riconoscere i meriti degli avversari. E allora, sicuro di interpretare il sentimento elitario (quello popolare mi ha stufato) di tutta la Clinica, applaudo la Fiorentina di Montella-nutella. L’ultima squadra italiana a violare la fortezza dello Juventus Stadium era stata la Sampdoria di Delio Rossi. Bisogna risalire al 6 gennaio 2013: 2-1 anche quel giorno. E anche quel giorno, una doppietta. Da Mauro Icardi a Mohamed Salah.

Meglio la Viola del violino di Garcia. E così, in Coppa Italia, si va verso il bis dell’ultima finale: Napoli-Fiorentina. Salah, Llorente, Salah. Mohamed è un egiziano di 22 anni che faceva la riserva al Chelsea. Da noi, sembra Cristiano Ronaldo: soprattutto se gli regali settanta metri di campo (primo gol) o gli spalanchi la porta (secondo gol: tu quouque, Marchisio).

Fare l’autopsia dei turnover ha poco senso: sia Allegri sia Montella vi erano ricorsi a piene mani. Se mai, stupisce l’uscita di Llorente: le sue ante, in un’area verosimilmente intasata, avrebbero fatto comodo.

Con il tiki-taka di Montella aveva tribolato anche lo squadrone di Conte. La Fiorentina è stata più squadra. La Juventus, in Italia, resta la più forte ma non sembra più così forte come in passato. Rischiò per un tempo con l’Inter, «questa» Inter, ha rischiato a Cesena (Cesena, ripeto), non ha premuto il grilletto contro una Roma in posa che le indicava dove mirare.

Vidal, Pogba, Marchisio: hanno tradito i titolari, non le riserve, i cui limiti sono netti, oltre che noti. E per allestire il 4-3-3 servono serbatoi pieni e ali vere: il Pepe d’antan, non questo, e giammai un Coman o un Tevez così larghi e «travestiti».

Nessun dramma, per carità. Ma nessun dorma.

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